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  • Maurizio Nichetti: i segreti di "Quo Vadiz?"

    Maurizio Nichetti
    Perché ci sono i Gatti di vicolo Miracoli al posto di Marco Vinicio? E perché ci sono le torte in faccia invece delle persecuzioni anti-cristiane? E per quale motivo non c’è più l’incendio di Roma ma le dissertazioni nichettiane sulla possibile natura aliena della donna? Si tratta forse di un Quo Vadis? di un mondo parallelo e alternativo? In un certo senso sì, considerando che  stiamo parlando di Quo Vadiz?, il Sienkiewicz (o, se si vuole, il LeRoy) riveduto e corretto alla maniera di Maurizio Nichetti. Con la collaborazione di Don Lurio e Sydne Rome. Dopo trent’anni, un altro classico da riscoprire almeno quanto quello dello scrittore polacco o del regista statunitense.





    Maurizio Nichetti,  Quo Vadiz? è stato definito un varietà kolossal (in questi termini se ne parla anche su Wikipedia). Che significa precisamente? 

    Il termine Kolossal dipende, probabilmente, dall’ambientazione peplum con una pre-sigla che ammiccava ai classici del genere sin dall’epoca del muto.  


    Se dico Gladiators non penso a reziari e mirmilloni, ma alla band al cui nome è legato un brano di apertura che rientra pienamente nel filone del pop anglo-italiano degli anni ’80 (sembra Tarzan Boy riambientato nell’antica Roma). Il testo è un misto di inglese e latino: lei partecipò in qualche misura alla sua genesi? Ci può parlare di come nacque quella sigla?  

    La sigla è stata prodotta da Freddy Naggiar e dalla sua Baby record ed era stata commissionata da me che partivo dalla frase: Verba volant Video manent tonight.  Mi piaceva l’idea di una sigla con un testo in latino.  Il concetto poi, anticipava il crollo della lettura e l’avvento dell’immagine che avremmo affrontato dal 2000 in poi con l’esplosione del digitale e dei social.  Nel 1984, anno di “Quo Vadiz?”, tutto questo non si sapeva ancora… ma si poteva cominciare ad immaginarlo come un futuro molto ravvicinato. 



    Che tipo di “celebrazione della romanità” è Quo Vadiz?, se di celebrazione della romanità si può parlare? 

    In realtà era una trasmissione che si ispirava piuttosto a “Hellzapoppin”, un film   del 1941 di Henry C. Potter . L’ambientazione era l’antica Roma, ma il susseguirsi degli avvenimenti seguiva  la follia di quel film.


    Quo Vadiz? andò in oda su Retequattro dall’ottobre 1984 al gennaio 1985: è un caso che, appena un mese dopo, in sorprendente continuità, su Raiuno sia iniziata la trasmissione della serie televisiva Quo Vadis?  con Klaus Maria Brandauer e Max Von Sydow? 


    Bisognerebbe chiederlo ai programmatori RAI ….  forse l’avevano utilizzata come un’astuta (?) controprogrammazione.  All’epoca i canali si combattevano tra loro anche così, non erano ancora tempi di Netflix o DAZN.



  • De Leonardis: doppiatori, che gente



    Tutta la cinematografia Disney.
    Ma anche Jurassic Park. E Star Wars. ESchindler’s List. E tonnellate di altri grandi film e telefilm e cartoni, come I Griffin. Questo è l’impero dei De Leonardis, una delle grandi dinastie dell’industria italiana del doppiaggio. L’opera del capostipiteRoberto è stata egregiamente continuata dal figlio, Roy, e probabilmente sarà proseguita dal figlio di questi.
    Ho avuto la fortuna di conoscere mr. Roy  De Leonardis come studente della scuola di scrittura per il cinema e la televisione della Luiss. A distanza di alcuni anni da quell’esperienza, mi sono ritagliato la possibilità di rivederlo per quest’intervista nel suo studio in via della Scrofa Roma. Ho trovato quella stessa persona bonaria, serena, piacevole, entusiasta, giocosa e gioiosa che mi ricordavo.  Dopo essermi lasciato sfuggire l’occasione di farlo partecipare ad un progetto di documentario, non volevo perdere almeno la possibilità di aggiungerlo nella galleria di ritratti per Notizie nazionali. Ecco perché, contrariamente alle mie abitudini, ho cercato di spaccare il minuto all’appuntamento per le 17.00 di giovedì 28 giugno 2018. Accolto dalle sue gentili segretarie, superata la muraglia sorniona del suo placido cagnone, ho potuto stringere finalmente la mano al mio caro ex docente (quella non occupata dal sigaro). Nel suo studio, genuinamente esposto ai rumori del traffico capitolino (e la cosa si nota chiaramente nel video caricato per YouTube), ho notato la collezione completa dei volumi di Tex. Mi sarebbe piaciuto scorgere anche qualcosa di relativo all’altra sua grande passione, il golf, ma non ci sono riuscito.  Così come, poco prima di varcare la soglia della Roy Film, avrei voluto riconoscere quel motorino con cui lo vidi, una volta, arrivare ai villini di via Nomentana (uno dei primi ricordi che ho di lui). Ma niente anche su questo fronte, pazienza. Quanto al doppiaggio, vocazione di una vita, non c’erano dubbi: non mi occorreva vedere cimeli e memorabilia sparsi per la stanza; piuttosto mi interessavano quelli che Roy custodisce nel cuore.
    Roy De Leonardis, vogliamo sfatare una volta per tutte il luogo comune per cui il doppiatore è un attore “non consacrato”? Chi è veramente costui?
    Il doppiatore è un grosso professionista, specie in Italia dove pratichiamo un doppiaggio di un certo livello che credo ci invidino un po’ tutti.  È un attore di spessore, che riesce a immedesimarsi in una parte con una dedizione certosina. E a passare anche, velocemente, da un certo ruolo ad un altro che non ha niente a che fare col primo. Può capitare quindi che, alla mattina, un doppiatore strappi gli applausi della sala di doppiaggio con un pezzo di altissima drammaticità e poi, al pomeriggio, passi ad un personaggio comico. C’è da dire, poi, che di solito i doppiatori non vedono il film prima di entrare in sala: quindi un’altra loro grande capacità dev’essere quella di saper afferrare al volo le poche, basiche indicazioni del direttore del doppiaggio. A certi livelli, poi, ce ne sono alcuni che raggiungono una familiarità tale con le movenze espressive del loro personaggio da non aver neppure più bisogno di provare: mi riferisco, ad esempio, ai doppiatori diTopolino e Pippo.
    L’attore lavora per entrare nell’immaginario del pubblico; il doppiatore, invece, per allargarne la fantasia. È d’accordo?
    Sostanzialmente sì. Prima di tutto, però, è bene dire che il doppiatore riesce a dare quei sentimentie quelle emozioni che difficilmente il pubblico, di fronte ad un prodotto originale, riuscirebbe ad avere. Io credo che sia ancora molto complicato per gli spettatori seguire un film con i sottotitoli. Sono piuttosto pessimista sul fatto che una conoscenza apprezzabile dell’inglese sia davvero così diffusa  presso la grande massa, e davvero non saprei dire in che misura potrebbe apprezzare il grande attore in originale. Poi sfido coloro che dicono che il doppiaggio è un tradimento e che “Ah! É meglio l’originale!” a mettersi a fare una traduzione integrale di tutto. Per quanto si possa essere attentissimi e anche piuttosto ferrati in inglese, qualcosa alla fine si finisce sempre per non capirla.
    Che significa lavorare con tanti doppiatori diversi? Ogni casa di doppiaggio ha un proprio stile e proprie regole?
    Tanti anni fa nel mondo del doppiaggio c’era molta più scelta qualitativa di voci, e il panorama non era “appiattito” come adesso. Le tv – in primis quelle commerciali – hanno peggiorato le cose. Soprattutto per la precipitazione dei tempi che hanno imposto, inevitabilmente a  discapito della recitazione. Tuttavia il fatto che ci fosse più eccellenza non significa che ci fossero tantissimi doppiatori: si trattava, infatti, di una popolazione artistica sostanzialmente gravitante entroquattro grandi gruppi associativi. Parliamo della Cdc, la Cvd, la S.a.s. e la Defis: nessuna di esse poteva vantare una “scuderia” troppo nutrita. Tant’è che mio padre, quando dovette far doppiareTora Tora Tora   (mitico film del 1970 con Martin Balsam, ndr), fu costretto ad affidare a due cooperative diverse il doppiaggio rispettivamente dei personaggi giapponesi e di quelli americani.
    Ammesso che il doppiatore non sia anche un divo del cinema, a volte può avere in comune con lui alcuni “difetti” caratteriali (per esempio il divismo)?
    Be’, qualche doppiatore-divo c’è e mi è anche capitato di conoscerlo. Quello che è convinto che quel determinato attore sia “suo” e tollera a stento che, in una qualche occasione, possa essere affidato ad un collega. Mi ricordo il caso di Ferruccio Amendola, grande monopolizzatore che doppiava Al PacinoDe NiroStallone e Dustin Hoffman: una volta che fu “spodestato” di Pacino, successe un mezzo macello. D’altra parte, però, bisogna anche rispettare la fidelizzazione del pubblico, altrimenti si rischia di andare incontro a sicuri flop: mi viene in mente Paul Newmanche, nel film “Il verdetto” (diretto da Sidney Lumet nel 1982, ndr) rimase “orfano” di Beppe Rinaldi. E andò malissimo.
    Di qualcuno dei grandi doppiatori che ha avuto modo di conoscere durante la sua attività ricorda qualche mania particolare? Che so, qualche rito scaramantico prima di entrare in sala, o durante il doppiaggio?
    Penso ancora a Rinaldi: un mostro, nel vero senso della parola. Capace di amministrare alla perfezione un ruolo di Jack Lemmon e poi di passare, con nonchalance, a misurarsi con Max Von Sydow. Ebbi modo di ammirarne, dal vivo, la classe superlativa ai tempi in cui incidevo le fiabe per la Disney. Mi colpì questo di lui: mentre, di norma, tutti i doppiatori stanno in piedi, lui era l’unico che pretendeva una sedia davanti al microfono. Poi, una volta accomodatosi, diceva al direttore del doppiaggio e ai suoi assistenti: “Appena sbaglio, fermatemi”. Ma praticamente non accadeva mai. Può darsi (ma ho molti dubbi) che sia stato fermato una volta. Ma chiamare Rinaldi a doppiare significava assistere alla prestazione di un congegno perfetto, capace di arrivare in fondo al foglio delle battute senza errori e nel tempo assegnato.
    C’è differenza tra doppiare principalmente film cinematografici e doppiare, di preferenza, serie televisive?
    Nei fatti un’enorme differenza, naturalmente. Ed è prima di tutto tecnica: il contratto nazionale del settore prevede 220 righe (quelle del foglio delle battute, ndrper le serie televisive – ma alla fine è sempre qualcuna in più –  e 140 per i film.  Però per i film spesso  ci sono più difficoltà perché i doppiatori si trovano, ogni volta, di fronte a qualcosa di nuovo. Invece nelle serie televisive si sentono un po’ più “a casa”, per così dire, perché si trovano di fronte a un nucleo di personaggiche è loro già familiare e a certi meccanismi della storia già collaudati.
    Da quello che le risulta, a che età un doppiatore comincia veramente a prendere dimestichezza col mestiere? 
    Be’, occorre essere chiari: questo è un mestiere che di preferenza si impara da bambini. È proprio iniziando a doppiare da piccoli che si acquisisce l’esperienza necessaria per padroneggiare il microfono. Diversamente, un’ottima e lunga esperienza teatrale alle spalle può consentire di sbarcare nel mondo del  doppiaggio con grandi soddisfazioni anche da adulti. Debbo citare a questo proposito una delle mie “scoperte” più recenti: Stefano De Sando, oggi voce ufficiale di Robert De Niro. Però, per quello che è il mercato di oggi, ci sono margini sempre più stretti per la sperimentazione: con i committenti che  hanno il fucile puntato e i tempi super-sincopati quasi sempre ci si affida ad artisti di comprovata esperienza.  Quelli che, appunto, hanno avuto il tempo di sbagliare e di crescere in un’età molto verde.
  • Luigi Leoni, il raffinato alieno del cinema italiano



    Il “sabin cortese” si racconta


    Per lui il talento attoriale è un “brio interiore”.
    E l’arte della recitazione è un esercizio di entusiasmo cosmico, che “ti fa abbracciare un pianeta con tutti i suoi viventi”.  Non poteva non essere fortemente impregnata di spiritualità la visione dell’ars scaenica di un aspirante prete come Luigi Leoni, presenza allampanata ed elegante distribuita quasi sempre in formato-cameo in più di trenta film del cinema italiano, dal 1958 all’88. Nella sua filmografia un percorso completo della settima arte di casa nostra nel dopoguerra, dal neorealismo comico alle co-produzioni internazionali, passando per la commedia erotica e di costume: un percorso compiuto quasi come un alieno misterioso e aristocratico, in missione a Cinecittà per conto dell’Actor’s Studio e dell’accademia Sharoff. Eppure, a quest’alieno sarebbe bastato appena qualche minuto in più per poter dar vita con più frequenza a icone di assoluto interesse, come il maestro di scuola in “Pinocchio”. Alzi la mano chi ha visto lo sceneggiato e non lo ricorda.
    Leoni, avrebbe mai sognato di interpretare il maestro in vita sua?
    Credo di no. Non ho mai aspirato a fare l’insegnante di professione. Trovo sia molto nobile insegnare in senso lato, ma in realtà non sono mai riuscito a vedermi dietro una cattedra.
    Quanto conosceva Pinocchio come romanzo prima di interpretare lo sceneggiato di Comencini? Le era piaciuto?
    Più che piaciuto, Pinocchio mi ha incuriosito. E ciò che mi ha incuriosito di più è il processo creativo che porta un pezzo di legno a diventare una creatura vivente, miracolo dell’arte di un falegname. Geppetto riesce a dare un’anima al suo burattino, che è fatalmente un’anima buona, gentile, in balia delle insidie del mondo e delle cattive compagnie.
    E se non avesse fatto il maestro, le sarebbe piaciuto fare proprio Geppetto?
    Forse sì, con la mia sensibilità però.   
    In generale, come fu la sua esperienza in quello sceneggiato?
    Tutto sommato positiva. Mi sono trovato a mio agio lavorando a braccetto con la fata (Gina Lollobrigida, ndr) e col bambino Pinocchio (Andrea Balestri, ndr), che ricordo come un ragazzo buono, gentile, ma spesso irrequieto anche perché tempestato di cattiverie dagli altri bambini sul set. Di Manfredi (Nino Manfredi,  l’interprete di Geppetto, ndr) non amavo le inflessioni dialettali, che sono molto lontane dal mio stile.  
    E di Lucignolo, che ricordo ha (interpretato nello sceneggiato da Domenico Santoro,ndr)?
    Un ragazzo abbastanza distaccato, davvero l’ombra oscura alle spalle di Pinocchio. Belloccio neppure troppo; uno dei tanti, piuttosto.

    Leggete il resto dell’articolo su http://www.notizienazionali.net/notizie/interviste/16679/luigi-leoni-il-raffinato-alieno-del-cinema-italiano.